Sabato
25 Febbraio
Il maestro malato
Ieri sera, uscendo dalla scuola, andai a visitare il mio maestro malato. Dal troppo lavorare s'è ammalato. Cinque ore di lezione al giorno, poi un'ora di ginnastica, poi altre due ore di scuola serale, che vuol dire dormir poco, mangiare di scappata e sfiatarsi dalla mattina alla sera: s'è rovinata la salute. Così dice mia madre. Mia madre m'aspettò sotto il portone, io salii solo, e incontrai per le scale il maestro della barbaccia nera, - Coatti, - quello che spaventa tutti e non punisce nessuno, egli mi guardò con gli occhi larghi e fece la voce del leone, per celia, ma senza ridere. Io ridevo ancora tirando il campanello, al quarto piano; ma rimasi male subito, quando la serva mi fece entrare in una povera camera, mezz'oscura, dove era coricato il mio maestro. Era in un piccolo letto di ferro, aveva la barba lunga. Si mise una mano alla fronte, per vederci meglio, ed esclamò con la sua voce affettuosa: - Oh Enrico! - Io m'avvicinai al letto, egli mi pose una mano sulla spalla, e disse: - Bravo, figliuolo. Hai fatto bene a venir a trovare il tuo povero maestro. Son ridotto a mal partito, come vedi, caro il mio Enrico. E come va la scuola? come vanno i compagni? Tutto bene, eh? anche senza di me. Ne fate di meno benissimo, è vero? del vostro vecchio maestro. - Io volevo dir di no; egli m'interruppe: - Via, via, lo so che non mi volete male. - E mise un sospiro. Io guardavo certe fotografie attaccate alla parete. - Vedi? - egli mi disse. - Son tutti ragazzi che m'han dato i loro ritratti, da più di vent'anni in qua. Dei buoni ragazzi, son le mie memorie quelle. Quando morirò, l'ultima occhiata la darò lì, a tutti quei monelli, fra cui ho passata la vita. Mi darai il ritratto tu pure, non è vero, quando avrai finito le elementari? Poi prese un'arancia sul tavolino da notte e me la mise in mano. - Non ho altro da darti, - disse, - è un regalo da malato. - Io lo guardavo e avevo il cuor triste, non so perché. - Bada eh... - riprese a dire - io spero di cavarmela; ma se non guarissi più... vedi di fortificarti nell'aritmetica, che è il tuo debole; fa' uno sforzo! non si tratta che d'un primo sforzo perché, alle volte, non è mancanza di attitudine, è un preconcetto, è come chi dicesse una fissazione. - Ma intanto respirava forte, si vedeva che soffriva. - Ho una febbraccia, - sospirò, - son mezz'andato. Mi raccomando, dunque. Battere sull'aritmetica, sui problemi. Non riesce alla prima? Si riposa un po' e poi si ritenta. Non riesce ancora? Un altro po' di riposo e poi daccapo. E avanti, ma tranquillamente, senza affannarsi, senza montarsi la testa. Va'. Saluta la mamma. E non rifar più le scale, ci rivedremo alla scuola. E se non ci rivedremo, ricordati qualche volta del tuo maestro di terza, che t'ha voluto bene. - A quelle parole mi venne da piangere. - China la testa, - egli mi disse. Io chinai la testa sul cappezzale; egli mi baciò sui capelli. Poi mi disse: - Va', - e voltò il viso verso il muro. E io volai giù per le scale perché avevo bisogno d'abbracciar mia madre.
La strada
Io t'osservavo dalla finestra,
questa sera, quando tornavi da casa del maestro, tu hai urtato una donna. Bada
meglio a come cammini per la strada. Anche lì ci sono dei doveri. Se misuri i
tuoi passi e i tuoi gesti in una casa privata, perché non dovresti far lo
stesso nella strada, che è la casa di tutti? Ricordati, Enrico. Tutte le volte
che incontri un vecchio cadente, un povero, un donna con un bimbo in braccio,
uno storpio con le stampelle, un uomo curvo sotto un carico, una famiglia
vestita a lutto, cedile il passo con rispetto: noi dobbiamo rispettare la
vecchiaia, la miseria, l'amor materno, l'infermità, la fatica, la morte.
Ogni volta che vedi una persona a cui arriva addosso una carrozza, tiralo via,
se è un fanciullo, avvertilo, se è un uomo; domanda sempre che cos'ha al
bambino che piange, raccogli il bastone al vecchio che l'ha lasciato cadere. Se
due fanciulli rissano, dividili, se son due uomini allontànati, non assistere
allo spettacolo della violenza brutale, che offende e indurisce il cuore. E
quando passa un uomo legato fra due guardie, non aggiungere la tua alla curiosità
crudele della folla: egli può essere un innocente. Cessa di parlar col tuo
compagno e di sorridere quando incontri una lettiga d'ospedale, che porta forse
un moribondo, o un convoglio mortuario, ché ne potrebbe uscir uno domani di
casa tua. Guarda con riverenza tutti quei ragazzi degli istituti che passano a
due a due: i cechi, i muti, i rachitici, gli orfani, i fanciulli abbandonati:
pensa che è la sventura e la carità umana che passa. Fingi sempre di non
vedere chi ha una deformità ripugnante o ridicola. Spegni sempre ogni
fiammifero acceso che tu trovi sui tuoi passi, che potrebbe costar la vita a
qualcuno. Rispondi sempre con gentilezza al passeggiero che ti domanda la via.
Non guardar nessuno ridendo, non correre senza bisogno, non gridare. Rispetta la
strada. L'educazione d'un popolo si giudica innanzi tutto dal contegno ch'egli
tien per la strada. Dove troverai la villania per le strade, troverai la
villania nelle case. E studiale, le strade, studia la città dove vivi; se
domani tu ne fossi sbalestrato lontano, saresti lieto d'averla presente bene
alla memoria, di poterla ripercorrere tutta col pensiero, - la tua città, la
tua piccola patria, - quella che è stata per tanti anni il tuo mondo, - dove
hai fatto i primi passi al fianco di tua madre, provato le prime commozioni,
aperto la mente alle prime idee, trovato i primi amici. Essa è stata una madre
per te: t'ha istruito, dilettato, protetto. Studiala nelle sue strade e nella
sua gente, - ed amala, - e quando la senti ingiuriare, difendila.
TUO PADRE
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